Risvegli

—La vita fa schifo—devi ammetterlo, eri davanti alla vetrina di Starbucks seduto con il tuo cappuccino bollente mentre giocherellavi a schiacciare le briciole di muffin doppio cioccolato sul tavolo di legno grezzo. Eri lì, ancora mezzo addormentato, che cercavi di ricostruire gli impegni della tua giornata e di tanto in tanto ti lasciavi cullare da qualche pensiero piacevole. Non avevi intenzione di dirlo, né avresti mai pensato che ci saresti riuscito, ma d’improvviso il tuo stomaco aveva cominciato a secernere strati di magma rovente e tutti i tuoi muscoli avevano preso a contrarsi senza preavviso. Brutta storia, davvero. Quella sensazione di vuoto, quel senso di disorientamento. Nessuna idea strutturata, nessun pensiero che lasciasse presagire la caduta attraverso un così ineluttabile abisso. Ricordi di aver guardato subito l’orologio senza metterlo a fuoco del tutto, ricordi la tua immagine riflessa nella vetrina. Respira, è già passato. Un altro sorso di caffè, un’altra occhiata furtiva al giornale del pallido individuo dai capelli rossi seduto davanti a te. Avevi pensato che questi momenti capitano a tutti e che a volte non se ne conosce nemmeno la ragione. Lo avevi letto da qualche parte, forse in un articolo su una rivista di psicologia spicciola. Ricordi di aver sorriso sentendoti un imbecille. Poi eri uscito, avevi camminato un po’ lungo il viale semideserto della città. L’aria fredda tagliava la tua pelle come la lama di un coltello affilato mentre tu sprofondavi goffamente nell’abbraccio misto acrilico del tuo cappotto pesante. Ti eri fermato a guardare il manifesto di un concerto già passato, gli annunci degli affitti e i numeri di telefono mezzi stracciati che ondeggiavano all’arrivo del vento. Saresti rimasto a guardarlo per ore, senza pensare né dire una parola. Esisteva qualcosa di più importante in fondo? Ma qualcuno ti stava aspettando e tu lo sapevi. Dovevi andare, altrimenti sarebbe solo stato peggio. Non ci sarebbe stata una parola, è chiaro, nemmeno un commento sottile. Ma ti avrebbero guardato nel modo che a te non piaceva e non potevi sopportarlo. Non in questo momento, almeno. Avevi accelerato il passo, ignorato quel fastidio che ormai sembrava un incendio dentro la tua pancia. Non potevi farci nulla, solo continuare a camminare. Poi avevi alzato di nuovo lo sguardo. Il semaforo rosso non ti permetteva di attraversare. Ti eri guardato intorno impaziente, infastidito, in attesa di poter ricominciare il tuo passo. Così ti eri girato ed il vetro di un negozio ti aveva regalato un altro fotogramma della tua immagine. Solo un attimo e subito avevi riabbassato lo sguardo. Avevi pensato che quello non potevi essere tu. Ma ormai lo avevi visto e non potevi ignorarlo. Così ti eri fatto coraggio e lo avevi guardato di nuovo. Da solo, lì in mezzo alla folla, il tuo viso sembrava provato da una sofferenza vecchia di anni. Il semaforo era scattato e il flusso di gente aveva ricominciato a scorrere nelle due direzioni. Dietro di te, un pullman dal blu sgargiante pubblicizzava l’ultimo film di Meryl Streep. Come al solito, come ogni mattina dei tuoi ultimi 35 anni. A te, però, il mondo non sembrava essere lo stesso. Il tempo, le parole e gli impegni non avevano più alcun valore. La paura, ormai, era passata. Nessun errore. Quello eri tu e nell’abisso ci eri già da un bel pezzo.

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